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IMPRESE ITALIANE ED INTEGRAZIONE: UN'ITALIA SENZA RETI ? |
IMPRESE ITALIANE ED INTEGRAZIONE:
UN' ITALIA SENZA RETI?
CONFERENZA DI ANNA MARIA ARTONI
Presidente dei Giovani Industriali di Confindustria
L'Italia non comunica.
Un divario profondo ci separa dagli altri Paesi avanzati nello sviluppo delle infrastrutture, sia materiali che immateriali.
Il ritardo nella realizzazione delle reti ha origini lontane. Affonda le sue radici nella miopia di una classe dirigente che per decenni ha preferito gli investimenti a breve termine, con immediato riscontro in termini elettorali, a quelli di medio-lungo periodo, come autostrade, ferrovie, porti, aeroporti.
Da un'indagine svolta nel 2000 (dal Cnel), che fotografa la situazione complessiva delle infrastrutture dei cinque principali Paesi dell'Unione Europea, emerge il grave ritardo dell'Italia rispetto ai principali competitors.
Il nostro Paese è penultimo in classifica – dietro di noi c'è solo la Spagna - con un indice di dotazione infrastrutturale di 95, contro i 117 del Regno Unito, i 115 della Germania, i 101 della Francia.
Sei regioni italiane, in particolare, risultano avere una dotazione di infrastrutture modesta, paragonabile a quella delle aree europee più arretrate: Calabria, Basilicata, Sardegna, Molise, Umbria e Trentino Alto Adige.
Basta un dato, forse, a chiarire perché ci troviamo in questa situazione.
Gli investimenti in opere pubbliche: nel 1999 (ultimo dato disponibile) il nostro Paese ha investito in infrastrutture soltanto l'1,5% del Pil, contro il 3,7% della Spagna, il 2,6% della Germania, il 2,5% della Francia.
Ma oggi l'Italia è chiamata a non ripetere gli errori del passato, affrontando con lungimiranza la sfida dell'evoluzione tecnologica. Il villaggio globale ha aperto nuove immense strade, più lunghe e più rapide di quelle su cui abbiamo costruito il boom degli anni Sessanta ('60).
Lo sviluppo delle reti telefoniche, di Internet, della banda larga e dei satelliti decideranno nei prossimi anni se l'Italia è dentro o fuori, se accetta o rifiuta la sfida della competizione globale.
La nostra politica stenta ad accorgersi dell'importanza delle reti, vecchie e nuove, oggi come trent'anni fa. Non dobbiamo farci ingannare dalla bolla speculativa e ideologica esplosa nel mondo di Internet.
Nel 1999 il web aveva sovraeccitato un po' tutti. Qualcuno profetizzava addirittura l'avvento di un'era di de-urbanizzazione, nella quale affari, acquisti, addirittura incontri si sarebbero svolti solo on-line, svuotando le vie e le piazze delle nostre città.
Non è stato così,
Internet non ha stravolto i nostri stili di vita e di lavoro, tanto quanto non è di per sé garanzia di successo per un'attività imprenditoriale. Ma ciò non deve indurre a cadere nell'eccesso opposto, a dimenticare che la rete è – e sarà sempre più - fattore strategico di sviluppo delle nostre imprese e della nostra società.
Alcuni dati estrapolati dal periodico monitoraggio di Federcomin sul mercato dell'information & communication technology dimostrano che il numero di utenti collegati alla rete continua a crescere nel nostro Paese. Alla fine del 2001 gli users internet sono stati stimati in quasi 18 milioni, ben il 38% in più dell'anno precedente. Il trend di forte crescita è confermato anche dai dati del primo trimestre di quest'anno, quando è stata superata la barriera dei 19 milioni. Di questi, 2,7 milioni sono riferibili al segmento small business (aziende fino a 100 dipendenti), il cui peso sul totale degli users è quindi pari a circa il 14%, a fronte di una media europea del 20%.
E' un dato su cui riflettere.
Perché le nostre imprese sono più refrattarie di quelle degli altri Paesi dell'Unione ad entrare in rete?
Probabilmente scontiamo ancora un ritardo culturale, che noi Giovani Imprenditori vogliamo contribuire a colmare, con iniziative volte ad affrontare queste tematiche.
Causa ed effetto, allo stesso tempo, di questo ritardo è la bassa percentuale degli utenti Internet che effettuano acquisti on line: alla fine del 2001 in Italia erano il 17%, contro una media europea del 23%.
Più in generale, nell'epoca del digitale l'Italia non è digitale. Secondo un recente studio (dell'I-Lab dell'Università Bocconi) l'Italia occupa il penultimo posto in Europa nella classifica della digitalizzazione, che sintetizza la situazione di 36 indicatori dello sviluppo dell'information & communication technology, tra cui la diffusione di Internet e delle infrastrutture digitali, il valore e il grado di concorrenza del mercato Ict. Dietro di noi solo la Spagna.
Gran Bretagna, Svezia, Finlandia e Norvegia si collocano invece ai primi posti con uno grado di digitalizzazione addirittura triplo rispetto al nostro. Preoccupante anche il "divide" all'interno del nostro Paese, dove Sud e Isole fanno registrare una diffusione delle nuove tecnologie pari ad un quinto del resto d'Italia.
Con queste premesse, non deve meravigliare che in Italia stenti a decollare la cosiddetta "società dell'informazione".
Spia evidente è la difficoltà della macchina pubblica di sintonizzarsi sulle frequenze dell'innovazione.
Siamo al dodicesimo posto in Europa per disponibilità di servizi pubblici completamente interattivi; all'undicesimo posto rispetto alla percentuale di servizi pubblici elettronici sul totale dei servizi pubblici.
Nella corsa alla competizione globale, un parametro di riferimento strategico è lo sviluppo delle "autostrade virtuali". Ma anche in questo settore, dobbiamo recuperare un pesante gap rispetto al resto d'Europa. Nel nostro Paese il tasso di diffusione della banda larga è pari al 2% del totale delle connessioni, contro il 3,5% della media europea.
La rete di accesso al digitale – o "ultimo miglio" – sconta non tanto il monopolio dell'ex operatore pubblico quanto il monopolio di una tecnologia, il rame. Non sono state utilizzate altre tecnologie, come il cavo coassiale, che invece all'estero hanno favorito il passaggio alla banda larga.
Secondo analisi recenti, ci sono settemila comuni italiani in cui l'Adsl – l'Internet veloce - non arriverà mai, perché le linee telefoniche non possono essere adattate a questa tecnologia.
Sono i Comuni più piccoli e più lontani dai grandi centri urbani.
Sono le vittime del "grande paradosso" della rete: Internet doveva abbattere le distanze e cancellare le esclusioni, la mancanza della banda larga rischia di generare altri pesanti divide.
Solo di recente le tecnologie satellitari hanno iniziato ad affermarsi come sistema alternativo e complementare per l'accesso alla banda larga.
Un aspetto particolarmente interessante della tecnologia satellitare è la capacità di coprire in modo totale ed uniforme il territorio nazionale. Questa caratteristica potrebbe essere utilizzata per raggiungere locazioni particolarmente disagiate, anche se l'alto costo rimane un vincolo alla diffusione del satellite come strumento trasmissivo di massa.
Particolarmente importante potrebbe essere l'impatto del progetto Galileo, che peraltro sarà operativo non prima del 2008. Il nuovo standard di navigazione satellitare GNSS promette di rivoluzionare i sistemi usati da ciascuno di noi per accedere alle informazioni e per richiedere assistenza e protezione.
Dal punto di vista della sicurezza, il progetto Galileo comporterà importanti vantaggi sia per il traffico aereo che per quello stradale. Galileo potrà essere utilizzato in ambito civile e commerciale - con applicazioni quali il ViaSat, i trasporti su strada, la navigazione – creando un mercato dalle enormi potenzialità, stimato in 74 miliardi di euro nel periodo 2000-2020. Galileo è quindi il primo esempio di come la creazione di infrastrutture tecnologiche comunitarie possa creare nuove opportunità di crescita per l'intera economia europea.
Il mercato della telefonia, infine, sta attraversando una fase di transizione e pare avvicinarsi sempre più alla saturazione, in Italia, per quanto riguarda i servizi della rete mobile GSM. Nel primo trimestre del 2002 i proprietari di telefoni cellulari nel nostro Paese hanno superato quota 49 milioni, consolidando un vero e proprio primato in Europa. Ma le prospettive più interessanti riguardano l'avvento dell'UMTS. In questo settore ci sembrano particolarmente importanti gli ultimi provvedimenti adottati ossia: l'allungamento delle licenze Umts da 15 a 20 anni, la semplificazione delle procedure per la realizzazione delle infrastrutture per le reti UMTS, la tv digitale terrestre e la banda larga.
Se le reti immateriali rappresentano la cartina di tornasole della capacità di innovazione di un Paese avanzato, "L'Italia senza reti" non ha futuro.
Non si sarebbe mai avverato il "miracolo" degli anni '60 senza la costruzione della rete autostradale.
Non ripartirà la nostra economia nei prossimi anni senza adeguati investimenti nelle reti tecnologiche.
Naturalmente non si tratta di riprodurre lo stesso modello di sviluppo basato sulle infrastrutture che ha caratterizzato le politiche economiche italiane degli anni '50 e '60.
Allora la spesa in opere pubbliche veniva usata – secondo le dottrine keynesiane – come moltiplicatore del reddito attraverso la riduzione della disoccupazione.
Oggi le infrastrutture rappresentano un fattore strategico di competitività, all'interno di un sistema economico impostato su una logica di rete. Nell'epoca del mercato globale infrastruttura è sinonimo di integrazione.
E solo chi è integrato sopravvive e accresce il suo livello di sviluppo e benessere.Ecco perché noi Giovani Imprenditori abbiamo deciso di occuparcene, scegliendo le reti immateriali come terreno strategico di analisi e di proposta.
In quest'ottica sosteniamo con forza l'idea di scomputare gli investimenti in infrastrutture - sia materiali che immateriali - dal calcolo del rapporto deficit-Pil, ai fini del rispetto del Patto di stabilità. Noi pensiamo che proprio nei momenti difficili sia necessaria una certa dose di flessibilità, che consenta agli investimenti di riprendere fiato, senza correre il rischio di aggirare le regole. È per questo che sosteniamo una interpretazione "intelligente" del Patto di stabilità, che dia la possibilità anche ai Paesi fortemente indebitati – come il nostro – di investire per le generazioni future.
E' ampiamente condiviso il ruolo strategico nello sviluppo del Paese della diffusione della banda larga. Siamo consci delle "difficoltà" in cui versano i conti pubblici e dell'estrema ristrettezza dei fondi a disposizione per investimenti. Ma, al di là delle cifre, prevedere incentivi fiscali per promuovere la diffusione dell'Internet veloce sarebbe un segnale importante per chi, tra gli imprenditori e i comuni cittadini, crede che il Governo debba incoraggiare l'innovazione e porla al servizio di tutti.
Lo sviluppo della banda larga può essere perseguito mediante l'impiego di diverse tecnologie, fibra ottica e satellite, e deve essere accompagnato da interventi che riducano le forti disparità d'accesso tra Nord e Sud. Basti pensare che – secondo i dati più aggiornati - Nord Ovest e Centro Italia sono stati "coperti" dalla fibra ottica per oltre il 30%, il Nord Est per il 27%, il Sud e le Isole solo per l'11,5%.
E' necessario, inoltre, definire un quadro di riferimento normativo con più certezze nel settore delle tlc. Un testo unico, che superi la varietà delle discipline vigenti a livello locale e agevoli la concorrenza tra gestori, "aprendo" l'accesso alle infrastrutture esistenti, in attesa che vengano realizzate quelle alternative. Ciò consentirebbe di incentivare la propensione all'investimento dei gestori, indispensabile alla crescita del nostro sistema Paese.
Investimenti in infrastrutture, incentivi fiscali, norme certe. Sono tutti presupposti fondamentali anche per il rilancio della competitività del nostro settore high-tech.
L'export italiano del settore ha subito tra il 1990 e il 2000 un brusco ridimensionamento, passando dal 2,6 all'1,1% del commercio mondiale di prodotti ad alta tecnologia. Oggi l'Italia non compare neanche nelle prime venti posizioni della classifica degli esportatori mondiali del settore. Per scalare la classifica, occorre instaurare un'interrelazione più stretta tra hi-tech – dove mancano i grandi produttori – e tlc, a partire dagli impianti di trasmissione, vero punto di forza della produzione italiana.
Propellente fondamentale, insostituibile, dello sviluppo tecnologico di un Paese è il capitale umano.
L'Italia senza reti è anche l'Italia "senza cervelli", o meglio l'Italia nella quale mancano le sedi, le opportunità, i finanziamenti perché i "cervelli" possano esercitare in Patria la loro capacità di ricerca e di innovazione.
La limitata destinazione di risorse – economiche e di struttura – alla ricerca determina una migrazione verso l'estero dei migliori studiosi, la cosiddetta "fuga dei cervelli". Secondo dati OCS, la spesa per la ricerca nel nostro Paese supera appena un punto percentuale del PIL, contro una media europea del 1,7%. Un'indagine del Censis risalente allo scorso anno ha chiarito le motivazioni – spesso di natura economica - che inducono i ricercatori italiani ad andare all'estero. Quasi il 60% dei 3.000 intervistati ritiene inadeguate le risorse disponibili per la ricerca nel nostro Paese, il 56% considera migliori le risorse finanziarie nello Stato ospitante, mentre il 51% confida in un più rapido sviluppo della carriera.
E a deprimere la grande quantità del capitale umano sono anche l'eccessiva burocratizzazione, la politicizzazione del sistema e la scarsità di tecnologie e laboratori.
Ma 43 intervistati su cento ricercatori tipo sarebbero disponibili a rientrare in Italia a condizione di ottenere remunerazioni competitive con quelle straniere e maggiore disponibilità di risorse. Esigenze assolutamente da soddisfare se si vuole favorire un ricambio generazionale costante per il sistema, in grado di invertire la tendenza degli ultimi dieci anni, durante i quali l'età media dei "cervelli" italiani è aumentata del 12%.
Una recente analisi, (condotta dalla fondazione Bnc), ha mostrato il ruolo determinante delle Università e dei centri di ricerca per la creazione e lo sviluppo dei distretti industriali tecnologici.
Non a caso, i distretti industriali italiani, che pure costituiscono il modello migliore – esportato in tutto il mondo – della nostra capacità di fare impresa, non presentano vocazioni high-tech perché non si sono potuti sviluppare, salvo poche eccezioni, attorno alle Università.
Lo conferma il dato riferito alla quota di imprese manifatturiere innovative che cooperano con istituti di educazione superiore, pari a 2,5 nel nostro Paese, a fronte del 10,4 tedesco e del 26,1 svedese.
In realtà anche l'Italia può esibire un modello di successo in questo ambito: l'Etna Valley, il distretto Ict sviluppatosi a Catania intorno alla multinazionale St Microelectronics. Il primo distretto ha di recente generato un altro microdistretto Ict, che può già contare su oltre 200 aziende e in cui operano più di 3.500 addetti.
Come nella prima iniziativa, continua ad essere assolutamente centrale il ruolo dell'Università locale, da dove provengono gran parte dei giovani sedotti dal fascino del "fare impresa" e che costituisce l'anello di collegamento tra le imprese high-tech e le istituzioni cittadine.
Non mancano, tuttavia, aspetti da migliorare anche in un caso vincente come questo: per un'affermazione duratura, capace di coniugare sviluppo tecnologico e occupazione, allo "spontaneismo" della fase di avvio deve subentrare l'organizzazione e la condivisione del progetto, attraverso una maggiore collaborazione di tutte le istituzioni interessate.
E per far sì che l'eccezione diventi la regola, urge adottare una strategia complessiva di sviluppo della ricerca.
E' indispensabile creare un flusso permanente di ricercatori dall'università all'industria, sia rifondando l'istituto del dottorato, sia rivedendo i percorsi di carriera accademica con obiettivi di ringiovanimento.
E' necessario inoltre innalzare il livello della ricerca privata, mediante un'accorta politica di incentivi: ad esempio, agganciando almeno parte della valutazione del personale docente alla capacità di attrarre ricerca d'impresa, con il risultato di generare nuove leve di laureati, dottori e ricercatori già formati alla ricerca applicata.
Nelle imprese è necessario diffondere, al tempo stesso, la cultura della ricerca, anche laddove le dimensioni dell'azienda sono così esigue da non consentire investimenti specifici in quest'ambito.
L'obiettivo di medio termine è creare centri privati specializzati, in grado di formare quella massa critica che le imprese minori da sole non potrebbero attivare.
Se fare impresa vuol dire disegnare un pezzo di futuro, costruire le reti vuol dire inserire quel pezzo nell'insieme, renderlo utile allo sviluppo economico e sociale.
Un obiettivo che può essere raggiunto soltanto abbattendo le barriere culturali e linguistiche che ancora separano l'Università dal mondo delle Imprese.
Noi Giovani Imprenditori moltiplicheremo gli sforzi, nei prossimi anni, per creare un codice comune che trasformi la diffidenza in sinergia.
L'università di Reggio Emilia, in virtù delle sue dimensioni e della sua capacità di inseguire la qualità, può essere il laboratorio ideale.
E' una battaglia nella quale cercheremo di essere protagonisti, convinti che progettare il domani sia meglio che subirlo.
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